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Giampaolo Nicolais: Il bambino capovolto

Giampaolo Nicolais: Il bambino capovolto. Per una psicologia dello sviluppo umano. Prefazione di Massimo Ammaniti. San Paolo Edizioni, Cinisello Balsamo 2018, pp.138, Euro 15.00.

di Antonio Onofri

Un perfetto connubio tra il sapere scientifico che indaga le conoscenze in nostro possesso riguardanti i bambini e l’umiltà di fronte al mistero, all’ignoto e all’imprevedibile, che caratterizzano l’esistenza umana e lo sviluppo infantile.

Un testo profondamente antiideologico, realista e controcorrente, questo Il bambino capovolto, di Giampaolo Nicolais, Professore Associato di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione, presso Sapienza Università di Roma.

Un volume agile e scorrevole, rivolto a chiunque si occupi di bambini o li incontri nella propria professione o vita personale. Insomma, un testo scientifico, ma di alta divulgazione. Uno scrigno prezioso, pieno di spunti e di riflessioni dal quale emerge un’intima, quasi segreta, sicuramente mai sfacciata, spiritualità.

Anzi, direi che gli scrigni sono tre: come tre sono i capitoli in cui il volume è diviso.

Il primo capitolo bene illustra quella che Simone Weil ha definito un’aspettativa di relazione che caratterizza ciascuno, nessuno escluso, a partire da - per citare alla lettera Nicolais – la speciale relazione che lega il corpo del nascituro a quello della madre, quella relazione intercorporea e mentalizzante tra feto e madre gestante che costituisce “ il processo costitutivo della persona umana”, a partire dalla dimostrata e sostanziale continuità tra le fasi pre e post natale. Senza alcun biologismo, ma assolutamente consapevole – in linea con la teoria dell’attaccamento – dei vincoli biologici che caratterizzano lo sviluppo umano, Giampaolo Nicolais cita le “leggi universali che ci superano e ci precedono”, che lo fanno bene argomentare contro la maternità surrogata che capovolge il bambino e la sua verità: un bambino che comincia a costituirsi con il concepimento, formandosi attraverso il dialogo intercorporeo con la madre e non solo dopo il parto.

L’originalità del pensiero di Nicolais bene emerge dal secondo capitolo, che non a caso costituisce il centro della sua trattazione, dedicato al tema della resilienza. Sta diminuendo la capacità dei nostri figli di affrontare le difficoltà, di resistere agli urti, di reagire senza soccombere alle inevitabili avversità che sempre si incontrano nel percorso esistenziale di un individuo?  Purtroppo sembrerebbe proprio di sì. E sembra dipendere da una qualche “mutazione” antropologica intervenuta nella genitorialità: quella che Nicolais intravede soprattutto in una “continua ipervigilanza, che nasce dalla paura di pericoli o minacce imminenti che potrebbero colpire il proprio bambino”, “un bambino così tanto più importante di loro e della loro stessa esistenza”, che ben presto si trasforma in un “piccolo tiranno, che sente di avere in pugno quei due poveretti mezzo morti di paura….”. Un tempo i genitori avevano, tra le paure principali, quella di “viziare” il proprio figlio, oggi reali o presunti bisogni del proprio bambino sembrano venire anteposti  sistematicamente a ogni altra considerazione. Ma, si chiede giustamente l’autore, se questi genitori appaiono spaventati, chiediamoci “spaventati da che cosa?”. La risposta sembra sotto gli occhi di tutti noi: dall’idea “che il piccolo non ce la faccia, che non resista alle circostanze avverse, che di fronte alle difficoltà si traumatizzi e resti danneggiato per sempre, anche quando i cosiddetti traumi consistono magari solo in qualche mancata e immediata gratificazione, in un piccolo divieto, una modesta incomprensione, un insignificante rimprovero, una breve separazione. Qui, una certa psicologia e una banalizzazione anche della stessa teoria dell’attaccamento, sembrano in effetti aver giocato un ruolo importante e forse aver generato effetti per certi versi nefasti: siamo diventati prigionieri di un pantraumatismo (per citare il neologismo coniato dall’autore) , di un determinismo esperienziale che vede il bambino come un essere di cristallo, frutto di una scelta (e non più di un flusso naturale di cicli di generazioni) che implica la ricerca della massima efficienza anche nella esperienza della genitorialità, insieme al terrore della propria inadeguatezza. Genitori che devono rivelarsi migliori dei propri genitori. Bambini figli unici, famiglie mononucleari, single parents. “Il colpo è unico e deve essere indirizzato alla perfezione”, scrive Nicolais non senza una certa ironia, proprio quando una famiglia numerosa sarebbe invece la migliore scuola naturale – con i suoi litigi, i suoi turni, le sue immancabili “attese” -  alla  complessità, alle difficoltà interpersonali, alla negoziazione e alla costruzione di una migliore “teoria della mente” altrui. Un tempo i genitori cercavano di rendere forti i propri figli, insegnavano loro a non comportarsi oltre un certo tempo come bambini, ora cercano disperatamente di proteggerli dalle frustrazioni, dalle incomprensioni, dalle disattenzioni, dai no, dimenticando come senza stress non si sviluppino nemmeno le capacità. Dimenticando che, per crescere, un bambino ha bisogno di affrontare e risolvere problemi. Ma appunto è come se, idealizzando l’infanzia, la crescita non fosse più l’obiettivo primo della educazione e del lavoro genitoriale. Per apprendere l’arte delle riparazioni interpersonali, ci dice Nicolais, occorrono le rotture. E la capacità di andare incontro alle rotture, di affrontarle senza paura. E’ come se si stesse perdendo un intero patrimonio della cultura psicoanalitica che da sempre sottolinea l’importanza della posticipazione della gratificazione, dell’attesa, per l’apprendimento di quell’autocontrollo, di quel “dominio di sé” (tanto agognato in passato e ora sostituito dalla “realizzazione” di sé) che sembra un fattore decisivo per il benessere mentale degli individui. La stessa cultura popolare e il buonsenso vedevano l’imparare a soffrire come una qualità decisiva per una buona crescita, consapevoli delle grandi competenze e delle preziose risorse che anche un bambino può costruire e che rendono assolutamente non prevedibile il suo percorso di vita. Che sia uno psicologo, e quindi un uomo “di scienza” consapevole di tutti i fattori di rischio e protettivi conosciuti dalla ricerca, a dire questo mi sembra un grande e allo stesso tempo coraggioso atto di umiltà.


Per finire, il terzo capitolo è un invito, assolutamente rilevante per il futuro delle nostre società, a considerare il bisogno che ogni bambino ha per le cose grandi e quindi la necessità che ci sia qualcuno, che sia però davvero più grande di lui, a promuovere le virtù. “Educare alle virtù – conclude Giampaolo Nicolais – è la migliore occasione che un genitore possa avere per sapere esattamente qual è il suo posto e la sua funzione: mostrare che i valori morali universali che ci rendono davvero umani sono desiderabili e che vale la pena perseguirli”.


Non vi sembra coraggioso che tutto questo venga ancora affermato?Non vi sembra un ottimo motivo per leggere questo libro? Io ve lo consiglio caldamente.


Antonio Onofri

Psichiatra, Psicoterapeuta SITCC, Supervisore EMDR e rappresentante italiano presso il Board di EMDR Europe, redattore della ESTD Newsletter, Comitato Scientifico della Scuola di Psicoterapia Training School di Roma e di Jesi,  fondatore del portale www.apertamenteweb.it



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